Accordi verticali tra imprese: l’evoluzione della normativa e il nuovo Regolamento Ue - Agenda Digitale

2022-06-25 07:32:49 By : Ms. Jocelyn Zhang

Il Vertical Block Exemption Regulation mira a fornire alle imprese regole più semplici, per agevolarle nelle valutazioni di compliance al quadro normativo Ue in materia di concorrenza e far fronte ad un ambiente grandemente influenzato dai nuovi modelli di business digitali. Come ci siamo arrivati e l’impatto sulle imprese

Magistrato - già Capo di Gabinetto AGCM

Il 10 maggio 2022 la Commissione europea ha approvato il nuovo Vertical Block Exemption Regulation (“VBER” o il “nuovo Regolamento”), relativo all’applicazione dell’art. 101, paragrafo 3, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE” o il “Trattato”) corredato dagli Orientamenti sulle restrizioni verticali (“Guidelines”).

Tale Regolamento, esitato dopo un lungo periodo di valutazione e revisione, sostituisce e aggiorna la precedente normativa[1], in scadenza il 31 maggio 2022.

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Margrethe Vestager, vicepresidente esecutiva della Commissione e responsabile della politica di concorrenza, del nuovo strumento ha affermato che “Il regolamento di esenzione per categoria verticale rivisto e gli orientamenti verticali sono il risultato di un processo di revisione approfondito. Le nuove regole forniranno alle aziende una guida aggiornata adatta per un decennio ancora più digitalizzato a venire. Le regole sono strumenti importanti che aiuteranno tutti i tipi di imprese, comprese le piccole e medie imprese, a valutare i loro accordi verticali nelle loro attività quotidiane”

In una prospettiva globale, ancor prima che europea, la forte crescita dell’eCommerce e l’agguerrita competizione delle imprese che operano attraverso l’utilizzo di strumenti digitali, hanno senz’altro avuto un impatto significativo sul mercato nell’ultimo decennio.

Il forte rilievo assunto dalle vendite online e il ruolo sempre più centrale delle piattaforme digitali hanno influenzato significativamente le strategie di distribuzione e di determinazione del prezzo, sia sul versante dei produttori che dei distributori.

Il fenomeno si è tradotto in una maggiore presenza di produttori nella vendita al dettaglio, per il tramite dei propri online store, con ricorso sempre più frequente ad accordi tra fornitore e distributore, con ciò alimentandosi l’esigenza di prevedere regole che permettano ai players di agire nel pieno rispetto delle logiche concorrenziali, senza tuttavia pregiudicarne lo sviluppo economico.

In tale contesto, il nuovo impianto normativo mira a fornire alle imprese regole più semplici, da agevolarle nelle valutazioni di compliance al paradigma normativo europeo in materia di concorrenza e consentire loro di far fronte ad un ambiente imprenditoriale grandemente influenzato dai nuovi modelli di business digitali.

Prima di procedere ad un’illustrazione analitica del nuovo quadro normativo europeo, occorre rivolgere uno sguardo al contesto in cui il Regolamento intende collocarsi.

Come noto, ai sensi dell’art. 101, paragrafo 1, TFUE, sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno.

Tuttavia, a norma del paragrafo 3 del citato articolo, risultano compatibili con il mercato quegli accordi che contribuiscono a migliorare la produzione o distribuzione di beni e, al contempo, consentono ai consumatori di trarre benefici, senza compromettere la concorrenza.

Tal ultima disposizione risulta di particolare interessante in quanto, il limite posto dal precedente paragrafo viene superato quando gli effetti favorevoli alla concorrenza delle intese risultano maggiori di quelli anticoncorrenziali e siano rispettati i criteri cumulativi ivi indicati.

In altri termini, sono esentati dal divieto quegli accordi che – pur rientrando nello schema previsto dall’art. 101, primo paragrafo – soddisfano le esigenze del terzo, con la peculiarità che tale esenzione opera con efficacia diretta e senza la necessità di alcuna autorizzazione preventiva[2].

Ebbene, nel corso degli anni la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ritenuto esentare, in presenza di determinati requisiti, i vertical agreements, i quali rivestono un ruolo preminente nel vecchio e anche nel nuovo Regolamento.

Essi godono di un trattamento di maggior favore rispetto alle intese orizzontali poiché, contrariamente a queste ultime, non coinvolgono concorrenti diretti e possono determinare guadagni in termini concorrenziali, grazie alle sinergie e alla complementarità delle imprese che partecipano all’intesa, generando, quindi, degli effetti tutt’altro che pregiudizievoli per la concorrenza.

Sono tali, quegli accordi conclusi tra due o più imprese, operanti ciascuna, ai fini dell’accordo o della pratica concordata, ad un livello differente della catena di produzione o di distribuzione, e che si riferiscono alle condizioni in base alle quali le parti possono acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi[3].

Tale definizione presenta quattro connotati essenziali.

In primis, va rilevato che la nozione di impresa gode di una maggior ampiezza rispetto a quella accolta all’art. 2082 c.c., rientrandovi anche la figura del professionista; ne deriva che è sottoposta alla normativa antitrust qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dalla propria forma giuridica.

La disposizione richiede, dunque, (i) la volontà di due o più imprese (secondo l’accezione appena vista) di tenere un dato comportamento nel mercato di riferimento[4]; (ii) che il consenso sia prestato da almeno due imprese distinte, restando fuori dal campo di azione del regolamento gli accordi tra impresa e consumatori; (iii) che le imprese operino a un livello diverso della filiera ai fini dell’accordo [5]; (iv) con riferimento all’oggetto stesso dell’accordo, l’intesa può essere esentata se diretta a definire le condizioni di acquisto e rivendita di prodotti o servizi, a prescindere dal nomen iuris assegnato all’accordo.

Le intese che rispecchino le caratteristiche qui delineate possono essere ammesse all’esenzione circoscritta dall’art. 101, comma 3, TFUE, qualora producano incrementi di efficienza economica, tali da superare o almeno controbilanciare gli effetti anticompetitivi ad esse connessi.

Attraverso il VBER e l’evoluzione che lo stesso ha subito negli anni, la Commissione ha dunque declinato gli ambiti in cui i limiti posti dal TFUE possono essere disapplicati, individuando le ipotesi in cui tali accordi possano beneficiare fin da subito dell’esenzione prevista dalla norma e per i quali è possibile presumere, con sufficiente certezza, che essi soddisfino le condizioni di cui al paragrafo 3, esonerandoli quindi dall’applicazione del divieto.

Il primo VBER trova le sue radici nel 99’[6], la cui regolamentazione modificava radicalmente la disciplina degli accordi verticali, sostituendo le precedenti norme in materia di distribuzione esclusiva, acquisto esclusivo e franchising.

L’impianto normativo poggiava sull’idea che le restrizioni contenute negli accordi verticali fossero suscettibili di avere un effetto anticoncorrenziale ove realizzate da imprese direttrici di potere di mercato.

Tra le principali innovazioni spiccava l’introduzione di quote di mercato quali soglie per il beneficio dell’esenzione dell’accordo; l’esenzione operava automaticamente, laddove la quota di mercato detenuta dal supplier non superasse il 30% del mercato rilevante in cui esso vendeva beni o servizi oggetto dell’accordo.

Sul piano giuridico, qualora l’accordo avesse superato la soglia del 30%, non sussisteva una presunzione di illiceità, che poteva comunque beneficiare, seppur non automatica, di un’esenzione individuale.

Dal beneficio restavano in ogni caso esclusi, prescindendo dalle quote di mercato, gli accordi con restrizioni c.d. hardcore[7] ritenute particolarmente lesive per la concorrenza.

Inoltre, per alcune tipologie di clausole, l’esenzione era condizionata al rispetto di specifici requisiti, come nel caso degli accordi di non concorrenza, esentabili solo se pattuiti con un limite massimo di durata di cinque anni.

Nel 2010, il successivo Regolamento UE 330/20120 (di seguito anche “Regolamento del 2010”), in vigore sino al 1° giugno 2022, ha mantenuto inalterato l’impianto contenutistico di base della precedente normativa, introducendo per la prima volta una regolamentazione per le vendite online (le quali non erano espressamente disciplinate nel precedente regime), con lo scopo di adeguare l’assetto normativo all’evoluzione delle prassi di mercato e alla diffusione di nuovi strumenti di promozione a seguito dello sviluppo delle nuove tecnologie[8].

In particolare, l’utilizzo di Internet finalizzato alla vendita dei prodotti doveva essere consentito a qualsiasi distributore, considerato che l’esistenza di un sito web era da considerarsi quale forma di vendita passiva[9] e, pertanto, salvo particolari eccezioni riferite alle vendite online[10], non poteva essere oggetto di restrizione, trattandosi di un modo ragionevole di consentire ai clienti di raggiungere il distributor.

Importante novità ha riguardato l’introduzione della soglia di mercato del 30% con riferimento all’acquirente; infatti, mentre il Regolamento del 99’ prendeva in considerazione solo la quota di mercato del fornitore, la successiva disciplina ha previsto l’estensione del requisito della soglia percentuale anche alla controparte acquirente, rispondendo all’esigenza di tenere in considerazione anche il potere di mercato degli acquirenti, che vedeva l’espansione di grandi gruppi di acquisto e la tendenza verso una struttura più concentrata dei mercati della distribuzione al dettaglio.

La doppia soglia del 30% veniva giustificata sulla base della constatazione che non tutte le intese anticoncorrenziali sono imposte dal fornitore all’acquirente; quest’ultimo, piuttosto, se dotato di potere di mercato, poteva (e può) introdurre clausole in contrasto con la normativa antitrust, quali quelle di gestione di categoria[11] e quelle che prevedono un pagamento anticipato[12] per l’accesso alla rete di distribuzione.

Veniva poi riconfermata la lista delle restrizioni hardcore, già enunciata nel precedente Regolamento del 99’, il cui mancato rispetto non determinava (e determina) la nullità dell’intesa verticale, ma la necessità di valutazione individuale della stessa, con l’onere, in capo alle imprese che hanno posto in essere l’accordo, che esso soddisfi le condizioni di cui all’art. 101, comma 3, TFUE.

Tra le restrizioni introdotte dalla norma, si evidenziano le resale price maintenance (“RPM”) per cui l’imposizione di prezzi di vendita, veniva considerata una restrizione hardcore e quindi vietata. Inoltre, l’imposizione di prezzi di rivendita in un accordo portava a presumere che lo stesso ponesse un limite alla concorrenza, rientrando, dunque, nell’alveo dell’art. 101 TFUE.

Anche gli obblighi di non concorrenza[13] sono stati inclusi nell’alveo della normativa, insieme alle ipotesi di reti parallele di accordi verticali simili nonché della distribuzione esclusiva e selettiva, fattispecie quest’ultima meritevole di un particolare approfondimento.

La disciplina della distribuzione selettiva, novum del Regolamento del 2010, era stata già oggetto di attenzione a livello di giurisprudenza interna e comunitaria, con particolare riguardo all’e-commerce.

La distribuzione selettiva, come noto, consente al fornitore un rigido controllo sui propri distributori, sia con riferimento ai soggetti cui affidare la distribuzione, che alle modalità di presentazione del prodotto sul mercato.[14]

Il principio generale è quello della libertà della circolazione delle merci e delle prestazioni di servizi sancito dall’art. 7 della direttiva 95/2008/CE e dall’art. 36 del TFUE.

Tale principio, conosce tuttavia un’importante eccezione nella disciplina interna laddove consente al titolare di privativa di evitare una diminuzione di attrattiva e di valore del segno distintivo del prodotto, protetto al ricorrere di motivi legittimi[15], rimessi alla verifica giudiziale del caso concreto.

Un fornitore, invero, adotta un sistema di distribuzione selettiva tendenzialmente in presenza di prodotti altamente tecnologici ovvero di quelli che appartengono alla categoria “ lusso”, al fine di evitare fenomeni di free riding tra i distributori, contrastare la contraffazione e rafforzare l’immagine del marchio nel mercato. Ne consegue che, per raggiungere detti obiettivi, egli selezionerà i propri distributori in basi a specifici criteri.

Il Regolamento del 2010 ha riconosciuto gli effetti pro-concorrenziali che discendono dall’adozione di tale forma di distribuzione.

La disciplina è stata più volte oggetto di discussione proprio con riferimento al mercato online. [16]

Particolare attenzione hanno suscitato le prassi di alcune imprese che imponevano ai propri distributori clausole quali il divieto di effettuare vendite a consumatori finali attraverso Internet, scaturenti forti dubbi circa la compatibilità di tali clausole con il dettato comunitario.

La Commissione ha risposto all’esigenza di indicazioni in tal senso attraverso le Guidelines del 2010, equiparando il divieto di utilizzo di forme di e-commerce ad una vera e propria restrizione delle vendite.

Nell’ambito di un sistema di distribuzione selettiva, infatti, il produttore può senz’altro esigere il rispetto di specifici standard qualitativi anche per i siti internet utilizzati per la rivendita dei suoi beni, al pari di quello che generalmente accade per negozio fisico, in relazione all’attività pubblicitaria e promozionale (il beneficio dell’esenzione non viene meno, ad esempio, quando il fornitore imponga, quale condizione per accedere al proprio sistema di distribuzione, la presenza di punti vendita fisici[17]).

Tuttavia, se in linea di principio il fornitore può imporre vincoli ai distributori nell’ambito del commercio elettronico, tali intese devono comunque essere non discriminatorie e non lesive della concorrenza[18].

Su quest’ultimo punto, sebbene non sussistano delle specifiche regole di esenzione con riguardo alla distribuzione selettiva, la copiosa giurisprudenza in materia ha inaugurato un safe harbour anche in riferimento agli accordi in questione.

Tra le varie pronunce, di rilievo il principio fissato con la cd. sentenza Coty.[19]

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla controversia nata tra la società Coty Germany GmbH, fornitrice di cosmetici di lusso con sede in Germania, e la Profumerie Azkente GmbH, uno dei suoi distributor autorizzati che utilizzava in modo riconoscibile la piattaforma internet (nella specie, Amazon) di un’impresa terza nella vendita tramite internet dei prodotti della rete.

In particolare, Coty imponeva ai propri distributori il rispetto di standard qualitativi per la rivendita dei suoi beni in relazione non solo ai punti vendita fisici, ma anche all’uso di siti internet. Con riferimento a questi ultimi, la previsione era contenuta in un accordo aggiuntivo, in base al quale ai distributori autorizzati veniva consentita la vendita dei prodotti online, ma ne venivano limitate le modalità, richiedendosi l’utilizzo di una propria vetrina elettronica al fine di preservare la connotazione lussuosa dei prodotti.

Quanto al coinvolgimento di eventuali piattaforme di terzi nella distribuzione dei prodotti oggetto del contratto, l’accordo aggiuntivo conteneva una clausola che ne ammetteva il ricorso solo nel caso in cui l’intervento di questi ultimi non fosse riconoscibile da parte del consumatore.

A fronte dell’utilizzo da parte di Profumerie Azkente GmbH della piattaforma Amazon, in aggiunta al proprio negozio online, Coty proponeva ricorso dinanzi al giudice nazionale per ottenere l’inibizione alla distribuzione dei marchi di lusso appartenenti alla categoria luxury sul mercato online di Amazon.

Il tribunale di primo grado rigettava la domanda, privilegiando l’interpretazione secondo la quale l’obiettivo del mantenimento di un’immagine di prestigio dei marchi appartenenti alla rete di Coty non potesse giustificare l’introduzione di una clausola come quella in esame, eccessivamente restrittiva della concorrenza e per questo contraria all’art. 101 TFUE.

Il giudice di secondo grado decideva, al contrario, di presentare domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di Giustizia, con l’obiettivo di chiarire se, e in quale misura, un sistema di distribuzione selettiva, volto a preservare l’immagine di lusso dei prodotti appartenenti alla rete, possa ritenersi conforme alle regole della concorrenza e se, pertanto, la clausola contrattuale concernente il divieto assoluto imposto ai distributori di servirsi in modo riconoscibile di imprese terze per il commercio online di prodotti determini delle distorsioni concorrenziali ai sensi dell’art. 101 TFUE.

Inoltre, al giudice europeo si chiedeva di chiarire se il Regolamento (UE) n. 330 del 2010 dovesse essere interpretato nel senso che tale divieto costituisse una restrizione per oggetto della clientela del dettagliante, ai sensi dell’art. 4, lett. b), e/o una restrizione per oggetto delle vendite passive agli utenti finali, ai sensi dell’art. 4, lett. c).

Con riferimento alla prima questione la Corte di Giustizia, rifacendosi a una sua giurisprudenza costante, ha ribadito che un sistema di distribuzione selettiva avente quale primario obiettivo la tutela dell’immagine di lusso dei prodotti non ricade nel divieto di cui all’art. 101 TFUE allorché siano rispettati i c.d. «criteri Metro», contribuendo alla notorietà degli stessi prodotti e quindi a salvaguardare la loro c.d. «aura di lusso».

Con riferimento alla legittimità della clausola contrattuale che vieta di servirsi in maniera riconoscibile di piattaforme terze per la vendita su internet dei prodotti di lusso oggetto del contratto, la Corte ha affermato che, nell’ambito del commercio elettronico, tale clausola assicura che siffatti prodotti vengano ricollegati unicamente ai distributori autorizzati, di talché ha concluso per ritenere la restrizione imposta ai distributori di Coty coerente con le caratteristiche inerenti al suo sistema di distribuzione selettiva Diversamente argomentando, stante il fatto che le piattaforme online costituiscono un canale di vendita per ogni tipo di prodotto, il fornitore non sarebbe in grado di controllare che l’ambiente digitale di vendita corrisponda alle condizioni qualitative concordate.

La Corte di Giustizia, in definitiva, ha quindi interpretato l’art. 101, par. 1, TFUE, nel senso che la disposizione non osti a una clausola contrattuale che vieti ai distributori autorizzati di un sistema di distribuzione selettiva di prodotti di lusso di servirsi in maniera riconoscibile di piattaforme terze per la vendita a mezzo internet dei prodotti oggetto del contratto, qualora la clausola contrattuale: a) sia diretta a salvaguardare l’immagine di lusso dei prodotti interessati; b) sia applicata in modo non discriminatorio; c) sia proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito.

Con riferimento alla seconda questione, invece, considerato che il contratto di distribuzione selettiva di Coty consentiva ai distributori autorizzati di fare pubblicità via internet a determinate condizioni su piattaforme terze e di utilizzare i propri motori di ricerca online, la Corte ha statuito nel senso che i clienti sono di norma in grado di trovare l’offerta su internet dei distributori autorizzati e, conseguentemente, ha escluso che il divieto di servirsi in modo riconoscibile di imprese terze per le vendite a mezzo internet possa costituire una restrizione della clientela dei distributori, ai sensi dell’art.4, lettera b) del Regolamento (UE) n. 330 del 2010 o una restrizione delle vendite passive dei distributori autorizzati agli utenti finali, ai sensi dell’articolo 4, par. c) di tale regolamento.

Di altrettanto rilievo, questa volta nel diritto interno e con riguardo al tema della tutela industrialistica del marchio, una recente pronuncia del Tribunale di Milano[20] che – in linea con il consolidato orientamento in tema di rivendita di articoli di lusso da parte di soggetti estranei alla rete di distribuzione selettiva – ha ritenuto motivo legittimo e quindi, in deroga al principio dell’esaurimento del marchio ex art. 5 c.p.i., la commercializzazione su una piattaforma online del prodotto di lusso diffuso, quando le modalità di vendita e di presentazione degli stessi non siano consone alla reputazione e al prestigio goduti dal marchio e quindi non siano in linea con la sua immagine, preservata anche grazie alla distribuzione selettiva, ovvero quando essi risultano alterati.

Ne deriva che la distribuzione selettiva rappresenti una tecnica particolarmente vantaggiosa rispetto alle categorie merceologiche che vedono l’esigenza di una più forte tutela del brand.

Tuttavia, come ampiamente visto, il ruolo centrale che ha assunto negli anni l’e-commerce ha spinto verso l’esigenza di tutele sempre maggiormente idonee in ordine a quelle clausole che concernono il canale della distribuzione online e che limitano la commercializzazione negli store digitali, attraverso degli accordi sempre più borderline.

La Commissione ha risposto a tale esigenza avviando con largo anticipo la revisione del Regolamento del 2010, interessando le aree che maggiormente hanno risentito del rapito sviluppo tecnologico e dei nuovi canali di distribuzione.

Il nuovo VBER, come evidenziato in premessa, rappresenta il risultato di un processo di revisione approfondito, i cui lavori hanno avuto inizio nell’ottobre del 2018, e mira, come accennato, ad adattare la disciplina degli accordi verticali agli sviluppi del mercato, con particolare attenzione all’e-commerce e alle piattaforme online che hanno indubbiamente rivoluzionato il modo di operare delle imprese.

L’adozione del Regolamento e delle Guidelines è stata preceduta da una valutazione della precedente normativa, pubblicata nel settembre 2020[21], il cui obiettivo è stato quello di raccogliere prove sul funzionamento dell’attuale VBER e delle Linee Guida, seguita da due successive consultazioni pubbliche, dalle quali è emerso che entrambi rappresentano strumenti significativi che agevolano le imprese nell’autovalutazione degli accordi verticali e aiutano a ridurre i costi di conformità.

La valutazione sostanzialmente positiva, dunque, ha indotto la Commissione a muovere i primi passi dal precedente testo, riproponendo la medesima struttura e buona parte delle precedenti disposizioni, seppur semplificate.

Il nuovo Regolamento si pone, infatti, in continuità con l’attuale impianto, di cui mantiene inalterate le finalità di incentivo della concorrenza, le cui principali novità possono essere individuate in tre obiettivi principali: (i) la ridefinizione del c.d. safe harbour, ossia quella zona di sicurezza in cui taluni accordi sono esentati per categoria e, quindi, compatibili con la concorrenza, (ii) l’adeguamento della normativa all’attuale contesto di mercato, (iii) la riduzione dei costi di compliance delle imprese.

In primo luogo, il Regolamento intende restringere l’ambito di applicazione della zona di sicurezza, c.d. safe harbour, con riguardo alle aree della dual distribution[22] e delle parity obbligations[23]; si tratta accordi che rientrano attualmente nella zona di sicurezza, ma per i quali non si può presumere con sufficiente certezza che soddisfino le condizioni per beneficiare dell’esenzione.

In altri termini, alcuni aspetti della doppia distribuzione e degli obblighi di parità non saranno più esentati ai sensi del nuovo Regolamento, ma dovranno essere valutati individualmente alla luce del parametro dettato dall’art. 101 del TFUE.

Sull’altro versante, la norma intende ampliare l’ambito di applicazione del safe harbour per quanto riguarda:

(i) le restrizioni delle vendite attive[24], ossia quelle limitazioni che vengono imposte dal produttore alla capacità dell’acquirente di rivolgersi attivamente ai singoli clienti e

(ii) il dual pricing, ossia la possibilità di applicare al distributore prezzi all’ingrosso differenziati per i prodotti che quest’ultimo dedicherà alla vendita online, rispetto a quelli destinati ad una vendita offline, e

(iii) l’equivalence principle, ossia la possibilità di imporre diverse condizioni di vendita per gli online store rispetto ai negozi fisici. La doppia tariffazione non viene più qualificata come hardcore, permettendo, dunque, ai fornitori di fissare prezzi all’ingrosso diversi per le vendite online e offline, con l’obiettivo di rispecchiare i costi sostenuti per ciascun canale di vendita, ritenuti intrinsecamente diversi; per il principio di equivalenza, invece, non è più richiesto che i criteri imposti dai fornitori in relazione alle vendite online siano complessivamente equivalenti ai criteri imposti ai negozi fisici[25], a condizione che non siano destinati a limitare gli acquisti online dei clienti. Risulta, poi, interessante la definizione di fornitori di servizi di intermediazione online offerta dal nuovo Regolamento, i quali saranno qualificati quali fornitori ai sensi della nuova normativa. In tal modo, la piattaforma online non potrà eludere la propria qualifica di fornitore.

In ultimo, ricollegandosi ai principi espressi dalla sentenza Coty qui richiamata,‎ ‎ ‎‎le nuove Guidelines hanno previsto che le restrizioni delle vendite sui mercati online – c.d. marketplace bans – siano esentate per categoria dal divieto, a condizione che le singole quote di mercato del fornitore e dell’acquirente non superino la soglia del 30%.

Le Guidelines, poi, affrontato anche l’ipotesi di accordi verticali ove la quota superi 30%, ammettendo la possibilità di porre delle restrizioni alle vendite online, laddove il fornitore non abbia alcun rapporto contrattuale con il distributore e l’intesa non rientri nelle restrizioni hardcore, a prescindere dalla categoria merceologica.

In ultimo, si osserva come attraverso le Guidelines la Commissione abbia inteso offrire precise indicazioni su come valutare le restrizioni online, attuando la giurisprudenza della Corte di Giustizia[26].

Troviamo infatti un dettagliato elenco di accordi che, direttamente o indirettamente, perseguono l’obiettivo di impedire ai distributori di vendere i loro beni o servizi online, e che, pertanto vengono collocati nelle restrizioni hardcore.

Ad esempio, rientrano in tali categorie le clausole volte ad impedire che i clienti situati in un dato territorio, diverso da quello assegnato dal fornitore al distributore, possano visualizzare il sito web di quest’ultimo – c.d. geoblocking –, di vendere esclusivamente in negozi fisici ovvero impedire il totale utilizzo del marchio del fornitore negli online store.

Il nuovo assetto normativo sulle intese verticali ha riproposto la struttura e, in larga parte, le disposizioni del precedente Regolamento, adeguandole agli elementi innovativi del mercato, sempre più orientato alla controparte digitale e conformandole alle esigenze di semplificazione delle aziende.

La Commissione, come da molti osservato, ha dunque accolto con favore le raccomandazioni delle parti interessate, semplificando le disposizioni vigenti al fine di renderle maggiormente accessibili agli stakeholders, con lo scopo di garantire un’applicazione armonizzata nel territorio europeo, integrativa degli orientamenti della Corte di Giustizia in materia, nonché chiarificando gli aspetti più complessi delle norme in vigore al fine di determinare un concreto beneficio in termini di costi e spese di compliance in capo alle imprese interessate.

Dovrà attendersi l’entrata in vigore e per comprendere l’effettivo impatto che il Regolamento è volto ad avere in un contesto in continua evoluzione.

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